Parlare oggi di diritti, ricordare la conquista dei diritti, è quanto mai attuale in una stagione in cui il precariato ha preso il sopravvento con la conseguente scarsa o inesistente mobilitazione sociale soprattutto da parte dei più giovani.

Sono proprio loro, la generazione dei trentenni, che sta pagando il prezzo più alto della crisi iniziata circa dieci anni fa. Sono i cosiddetti “Millenials”, nati dopo la fine degli anni settanta, i principali protagonisti della globalizzazione e delle conseguenze che ne sono conseguite anche in termini di occupazione.



Il problema è complesso e proprio per questo non risolvibile con facili slogan, ma con un nuovo pensiero. Entriamo infatti in un tempo in cui il lavoro non è più solo un fattore di produzione della ricchezza ma diviene un fatto sociale, legato alla dignità della persona.

La crescita del settore privato e gli investimenti pubblici non potranno certamente colmare da soli tutta la domanda di lavoro che c’è. Occorre quindi un nuovo pensiero creativo per poter disegnare nuove forme di attività e di lavoro per tutti, legate allo sviluppo comunitario della società, alla cura delle persone, e legato alla cura dell’ambiente in cui viviamo.  

Il percorso potrebbe essere più rapido di quanto ci si aspetti se solo si comprenderà che la IV Rivoluzione industriale potrebbe rappresentare una grande opportunità per nuove soluzioni di welfare comunitario, ad esempio offrendo servizi a basso costo e ad alto impatto di cura, o stimolando nuove forme di partecipazione dal basso, per generare nuove economie sostenibili in ambito sociale o ambientale. Questo tuttavia potrà accadere a patto che la nuova economia sia in grado di proporsi come piattaforma per nuove forme di sviluppo sostenibile, in cui la tecnologia avrà un ruolo abilitante.

Occorrerà lavorare affinché si crei un «connubio» fra digitale e sociale là dove normalmente si generano dicotomie: come quelle fra i beni relazionali e le connessioni, fra comunità e community, fra esperienze di senso e consumo.

Sfide queste che hanno bisogno di coraggio e di un nuovo attivismo dal basso che faccia emergere la concretezza e la rilevanza che ha una vita buona e felice.

Per accompagnare un cambiamento di questo tipo , il ruolo della scuola sarà basilare. Più che formare al mondo del lavoro in continuo mutamento e ormai molto frammentato in mille rivoli e specializzazioni, la scuola dovrebbe tornare a formare persone, liberi cittadini consapevoli e in possesso di quel bagaglio di cultura umanistica e scientifica indispensabile a garantire a tutti pari opportunità.

Senza nulla togliere al ruolo della formazione professionale che potrebbe anzi essere ripensata e considerata alla stregua di un percorso di apprendistato, da avviare non in alternativa ai percorsi scolastici, ma dopo un’assunzione che ne garantisca l’effettiva messa in pratica.

Incentivi alle aziende e il totale sgravio dei costi dell’apprendistato per il datore di lavoro potrebbero incoraggiare questi ultimi a tornare ad assumere.

Creare circuiti virtuosi tra saperi tradizionali e saperi digitali, sostenere start up innovative per generare una nuova economia sociale e ambientale sostenibile, agire sulla cultura come leva di innalzamento della qualità della vita, potenziare gli strumenti delle politiche attive del lavoro come il sistema di formazione professionale o le agenzie per il lavoro per qualificare, riqualificare e generare mobilità sociale, considerare lo spazio Europeo come luogo in cui iniziare a costruire percorsi occupazionali transnazionali.

Sono temi su cui credo ci si debba impegnare da subito anche e soprattutto attraverso il buon governo della Regione, utilizzando al meglio tutti gli strumenti finanziari regionali, nazionali e europei a disposizione.

#InsiemeNessunoEscluso
 
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