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In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 15 agosto, Andrea Riccardi della Comunità di Sant’Egidio, individua i pericoli per la democrazia insiti nella polemica contro i parlamentari e in generale a fare di un rapporto di tipo plebiscitario tra il popolo e il leader.

Le parole della politica Il popolo, sovrano «nelle forme e nei limiti della Costituzione», non sceglie un capo. E il problema non è il numero delle poltrone ma la responsabilità di chi le occupa.

SCREDITARE I PARLAMENTARI NON FA BENE ALLE ISTITUZIONI

Nel lessico politico agitato di questi giorni due parole ricorrono con frequenza: «popolo» e «poltrone». Il popolo sovrano da una parte e, dall’altra, l’accusa ai politici di essere accaparratori di poltrone. Dare voce al popolo e ridurre le poltrone sembra la panacea: un politically correct ripetuto da molti anche per non apparire «poltronari» o usurpatori della volontà del popolo. Il popolo italiano si è espresso recentemente. Alle elezioni politiche del marzo 2018 (da cui è nato il governo Conte) e con le Europee del maggio 2019. In un anno non è cambiato troppo, se non la crescita della Lega alle europee e nei sondaggi. Si deve, per ora, provare a cercare soluzioni all’interno del Parlamento. Non è attaccamento alle «poltrone», ma alla logica delle istituzioni democratiche.

In realtà è prevalso nell’immaginario politico, un modello bipolare che, negli anni Novanta, sembrò la soluzione alla crisi della prima Repubblica. Il culto del referendum lo ha rafforzato. Diversi sistemi elettorali hanno cercato di realizzare il bipolarismo, ma ci sono state resistenze che fanno pensare a un corpo sociale italiano refrattario, perché legato all’Italia delle cento città, ai tanti mondi, alle rappresentanze differenziate. La coerente ricerca di un sistema bipolare, animata da intenti riformatori della politica ma smentita dalla storia, è scaduta ormai in logica plebiscitaria. Dal bipolarismo al plebiscitarismo. È tutt’altra cosa.

Le elezioni politiche, nonostante l’insistenza sul leader, non sono un plebiscito a favore o contro un capo. Non legittimano il vincitore ai pieni poteri. È una concezione che non appartiene alla democrazia italiana, anche se talvolta qualche leader politico – non solo recentemente – si è presentato come unto dal popolo o come deprivato del mandato dalle congiure di palazzo, nonostante l’investitura popolare. In tempi controversi, la Costituzione della Repubblica parlamentare è una guida chiara, a meno che non si voglia modificarla. Allora sì, se si cambiano le regole, occorre chiamare gli italiani al referendum. Esternalizzare la politica dalle istituzioni parlamentari e non cercare innanzi tutto qui le soluzioni porta alla fiducia nel plebiscito.

Dalle ultime elezioni politiche è trascorso poco più di un anno. Mai una legislatura è durata così poco dal 1948. Non si può indulgere a un clima da plebiscito, per cui ritornare al popolo con il voto è qualcosa di rigeneratore.

È vero: la gente non si sente rappresentata. Quella delle periferie delle grandi città. I moltissimi che non votano e di cui la politica non si occupa. Gli anziani spaesati in un mondo poco decifrabile. L’Italia provinciale e le migliaia di località del Paese. Comunità e intermediazioni si sono dissolte. Gli italiani erano rappresentati da reti ormai svanite. La verticalizzazione in un capo, che rappresenti e rassicuri, si spiega con questo fenomeno, che si accompagna alla spettacolarizzazione della politica. Non è soltanto italiano. È invece molto italiana la fluidità dei consensi verso il leader che, come negli ultimi anni, non durano a lungo. Fluidità ammonitrice della fragilità delle emozioni politiche. Gli italiani si sono ritrovati in Renzi, ma l’hanno abbandonato al referendum. Il processo plebiscitario, come si è affacciato in talune congiunture italiane, nasce emotivamente carico e, spesso, poi si sgretola. Ma queste sono anche le caratteristiche del «popolo» italiano da rappresentare. Così si evidenzia l’utilità delle mediazioni politiche della democrazia parlamentare.

Vengo alle vituperate «poltrone». Nessuna volontà di difenderle anche nel numero. Parlare sempre di poltrone, per il Parlamento o il governo, sa di banalità che scivola nell’ipocrisia. Il problema non sono le poltrone, ma la responsabilità di chi le occupa. Forse i parlamentari sono stati troppo espropriati da contratti, crisi, litigi extraparlamentari e dal teatrino della comunicazione politica. Se nella prima Repubblica l’esproprio avvenne da parte dei partiti, oggi è prassi generale e delegittimante. Come ridurre il popolo a tifoseria, anche screditare i parlamentari eletti non fa bene alle istituzioni. Non è casuale che, da più parti, si sia chiesta l’introduzione del vincolo di mandato, vietato dalla Costituzione.

Il popolo, sovrano «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (articolo 1), ha bisogno di chi occupa le poltrone, anzi deve esigere da loro un servizio responsabile. Il popolo non sceglie un capo. Il caudillismo è una brutta storia, che venga dai plebisciti o dai golpe. In Europa orientale ci sono quelli che Àgnes Heller chiamava con gentilezza «regimi bonapartisti». Regimi che necessitano di continuo allarme sociale, di controllo dei media e di plebisciti. Per durare hanno bisogno di controllare la democrazia, ridurre l’indipendenza dei magistrati, della stampa e altro. Non è la nostra storia. Potrebbe essere l’esito della seconda Repubblica, se mancherà il coraggio della politica e s’indulgerà all’azzardo. Coraggio oggi in Italia non è mostrare i muscoli (fosse solo a parole), ma la capacità di tenere insieme la complessità.

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