Grazia Baroni ci invita a riflettere sul significato della Giornata della Memoria nell'attuale situazione politica, sociale e culturale.



Cosa rinnova la Giornata della Memoria che potremmo acquisire come insegnamento ulteriore? È solo lo sterminio degli ebrei?

La domanda si ripropone ogni volta che si avvicina questa data. Ciò che volevamo non dimenticare, prima di tutto, è che non c’è niente al mondo che giustifichi la soppressione di una vita umana.

In secondo luogo, non esiste nessuno al mondo che possa arrogarsi il diritto di scegliere chi può vivere e chi no.

La necessità di ribadire costantemente il valore irrinunciabile di questi principi - ed è per questo abbiamo messo un punto fisso sul calendario - è data dal fatto che la storia ci insegna che i problemi di convivenza tra le diversità che caratterizzano le nostre società richiede una forte dose di creatività per inventare nuove relazioni. Non tutti però sono in grado o disposti a fare questa fatica. È più facile e frequente scegliere scorciatoie per rispondere in fretta alla domanda, a discapito della complessità implicita.

Accumulandosi nel tempo, queste scorciatoie portano a ripetere gli stessi errori. Sono vent’anni che in Italia persiste l’incongruenza tra il celebrare il 27 gennaio, Giorno della Memoria, e il mantenere una legislazione relativa all’immigrazione che non è di sterminio esplicito, è vero, ma che contiene molti elementi di similitudine con quanto si condanna del processo storico che ha determinato la Shoah.

La prima somiglianza è tra le leggi razziali, che nel Reich avevano reso reato l’essere ebrei, e la legge Bossi-Fini che rende reato l’esistere dei non Italiani in Italia. Un’altra cosa grave è che la dicitura della legge nasconde l’elemento discriminatorio e lo trasforma in una norma a difesa della nazione. In questo modo chi la critica sembra mettersi contro la propria patria.

La terza incongruenza è il linguaggio usato deliberatamente in modo ambiguo. Riporto, ad esempio, l’incipit della legge: “Al fine di favorire le elargizioni in favore di iniziative di sviluppo umanitario, di qualunque natura, al testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni…” Pertanto, le operazioni compiute dalle ONG che con le navi recuperano i naufraghi nel Mediterraneo e le azioni delle associazioni che rispondono alle necessità umane degli immigrati a terra, sono rese impossibili da questa legge che rende tutti complici del reato di “immigrazione clandestina”.

La legge Bossi-Fini risale al 2002, ma la tecnica di usare parole in modo ambiguo, deformandone il significato, è incominciata con il governo Berlusconi nel ’94 e poi con i governi di Salvini e Conte ed è arrivata all’estremo di un trasformismo tale, da togliere qualsiasi forma di relazione costruttiva tra le persone, tutto questo favorito dalla velocità dell’informazione che consente di fare dichiarazioni contraddittorie tra loro da un giorno all’altro. Se le parole non corrispondono a valori e a realtà, non esistono più comunicazione e progetti possibili. Infatti, la comunicazione è un rapporto biunivoco tra due soggetti che si scambiano i loro punti di vista creando una nuova dimensione che li contiene entrambi senza confonderli e li trascende.

Questo scollamento tra il significato della parola e la realtà dei fatti ha distrutto la politica.

La politica è l’uso del confronto verbale in alternativa all’uso delle armi; quindi togliere valore alla parola crea di fatto spazio per le armi. Questo quotidiano uso deviato delle parole ci ha portato a gravi conseguenze e costituisce una semplificazione che rende sterile il linguaggio. Chiamare “buonismo” ciò che fanno le ONG legittima l’indifferenza. Usare il termine “politica”, vale a dire la ricerca del bene comune, quando in effetti ci si riferisce all’esercizio di potere di un partito, legittima la supremazia del potente. Definire i media e i social “mezzi di comunicazione,” cioè uno scambio creativo tra due soggetti, quando siamo di fronte a meri strumenti di informazione, legittima la superficialità e la strumentalizzazione dell’altro da sé. Infine, parlare di “economia” - che è l’armonia nell’uso delle risorse - quando ciò a cui ci si riferisce è la finanza - che è una scommessa su chi vince e chi perde - legittima la disuguaglianza.

Nel mondo della finanza e della produzione, le conseguenze di questo uso distorto del linguaggio sono particolarmente gravi perché hanno creato uno scollamento tra il valore della qualità del prodotto e il valore finanziario basato sul “gioco” in borsa. Ciò porta alla dequalificazione sia del lavoro che del prodotto e origina l’aumento della povertà e del consumismo che sfocia nel dramma ambientale.

Questa incongruenza è evidente anche nelle conseguenze delle speculazioni finanziarie: infatti, il giocatore finanziario sopravvive all’ondeggiare dei picchi di valore, perché il gioco è tutto virtuale, mentre le aziende produttive, i privati e i lavoratori, base dell’economia reale, soccombono perché ciò che ha perduto valore è la concretezza stessa della realtà.

In questo modo non si impoverisce soltanto l’aspetto economico della vita, ma si distrugge proprio il lavoro come qualità umana, espressione della capacità creativa e produttiva di trasformare la materia rendendola sempre più rispondente al nostro desiderio di condivisione del benessere e della soddisfazione per il proprio agire.

Abbiamo capito che uno dei più importanti valori è la relazione umana e continuiamo ad erigere separazioni. Temiamo le siccità conseguenti al riscaldamento globale dovuto all’uso degli idrocarburi e continuiamo ad inquinare sempre di più; sappiamo che il 75% dei lavori attuali tra due anni al massimo non ci sarà più e si continua a organizzare la scuola come luogo di formazione a questi lavori.

Quando c’è questa incongruenza tra ciò che facciamo e ciò che consideriamo giusto, creiamo il nostro disagio perché l’essere umano è un essere razionale la cui specificità è proprio dare ragione e senso alle cose.

Oggi non è solo il pianeta ad essere a rischio, ma l’umanità.

Questa contraddizione tra il celebrare una giornata che ammonisce su un fatto storico da non ripetere come i campi di segregazione quando la nostra società crea altri obbrobri disumani a scopo di bieco consenso per conservare il proprio potere personale, mette a rischio il valore della democrazia come conquista di civiltà.

Le giornate mondiali sono davvero momenti di riconoscimento e consolidamento dei valori su cui si fonda la nostra convivenza oppure è solo folclore?

La commemorazione del passato ci ricorda solo un momento storico, oppure ci ricorda qualcosa che sostiene e dà qualità alla nostra scelta della Democrazia? Questo dobbiamo domandarci.

Allo stesso modo il fatto di giurare sulla Costituzione da parte di chi si appresta a governare è solo un rito o è una dichiarazione di fedeltà a quei valori che sono la prospettiva della società che il Governo si propone di realizzare?

Il mandato che si riceve attraverso le elezioni è proprio quello di realizzare i principi che la Costituzione descrive come base della convivenza civile e come progetto di prospettiva da realizzare in solido: tutti i punti della Costituzione devono essere rispettati.

La democrazia è proprio il superamento della necessità di individuare una misura che dica chi vale e chi no; è lo strumento che consente a ogni persona di avere diritti in quanto essere umano che partecipa al vivere civile, la democrazia non richiede altri meriti. Quindi cosa vuol dire giurare sulla Costituzione quando al Ministero dell’istruzione e del Merito, dell’attuale Governo Meloni, si ripropone la meritocrazia?

Cosa vuol dire giurare sulla Costituzione e poi proporre l’autonomia differenziata tra le regioni, come hanno fatto i ministri Salvini e Calderoli, aggravando le differenze tra i territori e i servizi per la cittadinanza?

La qualità democratica deve essere quella di estendersi sempre di più, fino a includere l’intera umanità perché quando ci si trova a dover difendere la democrazia, anziché condividerla, si erigono muri, si tolgono diritti e si inizia a negarla.

La storia testimonia la profondità del significato che le parole trasmettono: non è folklore. A testimonianza di ciò quando il Parlamento italiano ha dato riconoscimento ai luoghi della Shoah, assegnando un finanziamento alle scuole per far conoscere la realtà dei campi di sterminio, Liliana Segre nel dichiarare il proprio voto favorevole ha detto: “Ad Auschwitz, si va in silenzio, con vestiti adeguati. Non si va in gita, si va come a un santuario magari avendo anche saltato la colazione del mattino….”

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