Grazia Baroni si interroga e ci interroga sul rapporto tra libertà, possesso e violenza nella società umane

Parlare di femminicidi come effetto della visione maschilista nel rapporto uomo-donna non va alla radice del problema, è insufficiente e perpetua il modello di contrapposizione tra soggetti diversi. L’educazione, infatti, passa attraverso la donna, l’uomo, la scuola e la società, gli esseri umani, insomma. Pertanto, è l’effetto della visione antropologica, di fatto ancora attuale e universale, che ha come modello la logica della supremazia evidenziata nel rapporto di forze che caratterizza il mondo animale.

Il recente caso di Giulia, ennesimo femminicidio che ha risvegliato le coscienze della stragrande maggioranza dei cittadini italiani, ha suscitando riflessioni sul rapporto uomo-donna, come se la sopraffazione dell’uno sull’altra fosse l’unico ostacolo da superare. Perché mai, allora, la recente sentenza che ha strappato un bambino dalle braccia degli unici genitori che avesse mai conosciuto per consegnarlo a quelle della madre biologica non ha suscitato altrettanta indignazione e incredulità? La violenza di questo atto non è forse altrettanto devastante? Non lascia anch’esso tracce indelebili?

Questo discorso vale anche per i reati di pedofilia e di pornografia che suscitano al massimo una riprovazione morale, ma non l’indignazione adeguata a un comportamento che degrada l’essere umano alla dimensione bestiale, a spregio della sua dignità. Questi sono atti che mettono in luce l’assurda incongruenza che c’è fra la coscienza di sé, come sembra essere stata raggiunta dalla società tanto da essere espressa nella normativa dei Diritti Umani, e il linguaggio e i comportamenti che persistono e si rifanno a concezioni arcaiche legate a un concetto di dipendenza e di sopraffazione.

La pedofilia, il femminicidio e il considerare un figlio come un diritto, funzionale al legittimare l’essere donna di una persona, hanno in comune un equivoco di fondo: quello di poter concepire l’altro come oggetto riducibile a proprietà. Tale equivoco è la conseguenza del non aver ancora riconosciuto ciò che distingue l’essere umano da qualsiasi altro essere vivente: il fatto che la libertà sia la sua natura.

Cosa significa essere liberi? Gli esseri umani si sono evoluti nella ricerca di liberarsi da tutti i vincoli esterni: dai bisogni primari per la sopravvivenza, ai rapporti di forze, tanto che abbiamo inventato la democrazia, che è l’unica forma di organizzazione sociale che garantisce la pace, cioè lo spazio che permette di sperimentare la personale libertà. Considerando l’umanità, è solo una sparuta minoranza quella che ha raggiunto questo metodo organizzativo e questa qualità relazionale non ancora consolidata pienamente, tanto è vero che è sempre a rischio. La democrazia è un concetto che non si può conservare o difendere senza snaturarlo, perché come la libertà non accetta limiti ed è solo nella condivisione che può essere esercitata. Chi riduce la struttura democratica ad un semplice conteggio di maggioranza e minoranza riporta indietro il cammino evolutivo ritornando alla dimensione tribale, e si dimostra non adeguato all’evoluzione della civiltà. Chi non trova gli strumenti per condividere la democrazia la perde.

Però adesso che non abbiamo più vincoli esterni, o che comunque sappiamo come potremmo superarli grazie alla conoscenza, alla democrazia e alla tecnologia, abbiamo comunque ancora la concezione della libertà come idea di indipendenza da qualcosa, non come qualità peculiare della natura umana.

Soltanto se cominciamo a riflettere sul fatto che ciascuno di noi esseri umani è libero, riconosciamo che l’altro è come noi e quindi la relazione che dobbiamo costruire è di riconoscimento, di accoglienza e di rispetto della reciproca libertà. Per fare questo è necessario accogliere l’altro: se non lo si accoglie, l’altro diventa il proprio limite e, automaticamente, l’antagonista: infatti, la libertà non accetta limiti. Noi abbiamo chiamato amore l’unica forza, l’unica condizione o qualità relazionale che permette di esercitare la personale libertà nella libertà comune. Perché l’amore è quella qualità, quella scelta che consente di vedere l’altro per quello che è e che vuole essere.

Perciò esercitare la violenza nei confronti di coloro che dovremmo amare non dipende da concetti sociali come il patriarcato, né da condizioni storiche, ma è ancora legato alla concezione ancestrale e arcaica della natura umana come violenta.

Certo, vivere la personale libertà è difficile: richiede di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e così facendo si deve uscire dal presente e considerare il tempo dell’intera vita. Quindi responsabilità vuol dire avere coscienza del fatto che la tua vita, le tue azioni, non si esauriscono nell’attimo, ma durano e che le scelte esercitate perdurano nei loro effetti durante il corso dell’esistenza.

Non è semplice perché abbiamo da superare tanti modelli ben radicati nel passato, ma è necessario per uscire dalla logica del nemico, del conflitto, dalla condizione di “minorità” sia come singoli individui che come umanità. La difficoltà dell’esercizio della libertà la società l’ha intuita, tanto è vero che pone limiti alla responsabilità delle persone in base all’età: ci vuole un minimo di 18 anni per prendersi la responsabilità su sé stessi e sugli altri. Ma è urgente andare oltre: lo dimostra il fatto che le cronache sono piene di azioni irresponsabili nonostante il raggiungimento della maggior età.

Poiché esercitare la libertà è così difficile è necessario l’impegno congiunto di tutta la società: ci vuole l’educazione da parte di tutti. Bisogna crescere insieme su questo, in un apprendimento che è personale e comune.

Il risolvere i rapporti interpersonali riguarda tutti; affrontare nella sua complessità questa nostra potenzialità è necessario per poter continuare la nostra civiltà e la nostra storia fino a vivere pienamente il valore dell’umanità che ci distingue.

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