scuola meritocrazia
Chiamare il Ministero della Pubblica Istruzione Ministero anche del Merito, rivela la mentalità che sottostà a questa definizione, che è una mentalità elitaria e discriminante che non solo non risolve il problema della qualità del servizio scolastico, ma ne conferma il limite strutturale: quello di attribuire alla scuola il compito di certificare la conformità degli studenti al modello di cittadino di cui essa è garante.


La forma democratica delle istituzioni italiane è stata scelta per risolvere il problema dell’ingiustizia della “casualità della nascita”. Inoltre la scuola è stata pensata pubblica (costituzionalmente la scuola privata è accettata, ma non deve costituire oneri per lo stato) per togliere la necessità del merito, in modo da dare a ogni cittadino gli strumenti necessari ad autodeterminarsi.


Questo era il progetto; la sua realizzazione ha dovuto fare i conti con la cultura diffusa, che doveva ancora superare il limite della logica aristocratica dei privilegi e dell’idea meritocratica del fascismo. Altro ostacolo da superare è stato quello di non aver considerato che il progetto di partenza indicava anche l’obiettivo da raggiungere. Infatti c’erano ancora problemi prioritari da risolvere legati alla sopravvivenza: problemi legati alla disponibilità di vitto e alloggio per tutti, alla sanità pubblica e un analfabetismo che colpiva più del 70% della popolazione italiana. Queste condizioni sono state superate, in Italia e non solo, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.


Passata la fase di emergenza, intervenuta la possibilità di pensare al di fuori della dimensione della necessità, cosa che è ancora da fare, è emerso il pensiero del Socialismo Reale che non dà valore all’essere umano in base alla propria singolare diversità: i cittadini sono considerati uguali misurandoli sul bisogno, idea ereditata dal marxismo. Scontrandosi con la diversità innegabile e irriducibile degli esseri umani, i rappresentanti del Socialismo reale in Italia hanno pensato che, per includere tutti, il livello della scuola dovesse essere abbassato, in modo che anche i poveri ce la potessero fare.


In questo modo hanno veramente espresso una forma di pregiudizio di pensiero assolutamente razzista: il povero è inferiore e questa sua condizione è la conseguenza del fatto che è meno intelligente e vale meno. Per dirla in termini luterani, filosofia alla base del capitalismo, il povero non si merita di essere riconosciuto da Dio, perciò la qualità della sua vita corrisponde al livello della sua pochezza e malvagità.


L’altro pregiudizio che sottostà a questa idea è che ci sia un unico modo per “arrivare”, è una mentalità che esiste ancora oggi: ritiene che ci sia un punto di arrivo uguale per tutti, un unico modo per essere riconosciuti, quello del successo. Ma successo rispetto a che cosa? Una volta rispetto al potere, al comando e alla supremazia sugli altri e oggi rispetto alla ricchezza. La cultura umanista alla base del trentatreesimo articolo della costituzione, pretende che la scuola abbia il dovere di dare i migliori strumenti a ciascuno affinché possa autodeterminarsi, essere libero di scegliere se e come partecipare alla creazione della società. Per questo nell’articolo è usata la parola “meritevole” perché è intrinseco, nel lavoro del pedagogo e dell’educatore, il riconoscere l’impegno dei singoli.


La valutazione, in voti o giudizi, è l’unico modo che si è escogitato, fino ad ora, per consentire ai giovani di misurarsi e di crescere nelle risorse e qualità, come metro di misura perché il bambino, l’adolescente, il giovane e l’adulto abbiano un riferimento comune per capire di che pasta sono fatti, per conoscersi nelle proprie potenzialità, da quelle fisiche, a quelle emotive e razionali, a quelle immaginifiche. È un processo di consapevolezza di sé sia nel numero delle risorse che uno si riconosce, sia nella loro profondità. La valutazione però non dovrebbe bloccare il percorso scolastico e precludere quindi il suo avanzare nell’apprendimento. Non è nella paura e nell’avvilimento che si apprende, ma nel gusto e nella consapevolezza del valore di ciò che si impara.


Il metro di misura dell’operato dell’insegnante dovrebbe essere proprio l’aver suscitato negli allievi la curiosità e il gusto di apprendere la sua disciplina. L’unica regola assolutamente ineludibile è quella del rispetto di sé e degli altri, affinché si impari a vivere la propria libertà assieme alla libertà di tutti. Questa è la cosa più difficile, il traguardo più alto della scuola. E bisogna avere la consapevolezza del fatto che la responsabilità di scegliere deve essere adeguata all’età, perché si può scegliere su quello che si conosce. Se non si sceglie sul noto, la scelta è indotta e non rispetta la libertà dei singoli.


Il merito è un elemento discriminante, non è democratico. Bisogna formare gli insegnanti alla pedagogia nuova che si basa sul gusto della condivisione di ciò che interessa, che conosci e che ti piace, perché è dal gusto della conoscenza che si apre la meraviglia dell’ignoto che nel suo mistero nasconde le risposte a nuove curiosità.


Per questo trovo assolutamente indispensabile formare gli insegnanti alla nuova finalità dell’istituzione scolastica, attraverso corsi di formazione capaci di far acquisire la concezione di un essere umano che è, nella sua singolare creatività e nelle sue potenzialità trasformative e relazionali, il vero valore per l’intera umanità e non una persona continuamente misurata, nel dover essere, nel limite e nel senso di colpa per il suo non adattamento al modello, come è oggi.


È una cultura che bisogna praticare perché è quella che il nuovo millennio aspetta, altrimenti si torna al paleolitico con un essere umano pieno di necessità e paure. Per questo c’è bisogno di adeguati finanziamenti alla scuola pubblica e non a quella privata e parificata, come detta la nostra Costituzione


Un commento su “Grazia Baroni su “Scuola e merito””

  • Bell’articolo, complimenti a Grazia. però nn capisco una cosa e ho un dubbio su un’altra.

    Non capisco dove Grazia scrive
    “Passata la fase di emergenza, intervenuta la possibilità di pensare al di fuori della dimensione della necessità, cosa che è ancora da fare, è emerso il pensiero del Socialismo Reale che non dà valore all’essere umano in base alla propria singolare diversità: i cittadini sono considerati uguali misurandoli sul bisogno, idea ereditata dal marxismo. Scontrandosi con la diversità innegabile e irriducibile degli esseri umani, i rappresentanti del Socialismo reale in Italia hanno pensato che, per includere tutti, il livello della scuola dovesse essere abbassato, in modo che anche i poveri ce la potessero fare.”

    E cioè se immagino che x rappresentanti del socialismo reale intenda i vertici del PCI negli anni 60 e 70, nn comprendo però in che modo questi abbiano voluto abbassare il livello della scuola per permettere ai poveri di accedervi. Quelli sono stati gli anni della contestazione, di un movimento globale anche contraddittorio ma che nn risparmiava critiche ai partiti e ai governi e nn fu certo promosso dal PCI, anzi. eppure ricordo negli anni 70 le riforme che hanno abolito le classi ghetto differenziali prospettando l’inclusione scolastica, la partecipazione dei genitori e degli alunni… Di sicuro i risultati nn sono stati all’altezza delle aspettative. Ma quando penso a un Rodari, iscritto e attivo nel PCI, non lo vedo certo come un livellatore al ribasso della scuola… Quindi forse ho inteso male il suo discorso…

    Il dubbio è invece …sul paleolitico, come luogo della necessità e paura. Di questi 2 milioni di anni noi sappiamo pochissimo, però abbiamo proiettato i nostri preconcetti, del resto senza scrittura e senza memoria questi popoli sono per noi muti. Eppure rare ma significative testimonianze ci parlano anche di gruppi umani solidali, che si prendevano cura degli anziani e persino delle persone disabili. Che dunque avevano risorse le sapevano sfruttare, e nn vivevano nella disperazione.
    È solo una riflessione…
    Grazie.

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